la palestra di Nadia Comaneci


17.10.13

Caracas, 1980 circa.  A volte è difficile datare i ricordi.  Compaiono a tratti, saltellanti e brevi, svegliati all'improvviso da un profumo, da un rumore, dal sapore dolciastro di una merendina capace di trasportarci di colpo nella nostra infanzia.

Molto probabilmente il mio ammasso di ricordi era vicino a quella data.  Vivevo in un condominio di nove piani costruito negli anni settanta, come tutto il quartiere "El Cafetal", e come gran parte della periferia sudest della città.  Avevo circa sette anni, l'età di Marta, mia figlia, oggi.

Il condominio era un grosso edificio bianco che si affacciava su un parco giochi.  La strada era un vicolo cieco e finiva in un piccola chiesa dove regolarmente incontravamo i vicini ogni domenica.  Non era molto lunga, solo tre edifici seguivano l'allineamento arretrato del bordo stradale, separati da grandi parcheggi coperti.  Io vivevo al settimo piano.


All'epoca sicuramente la speculazione edilizia non era arrivata ai livelli sfrenati di oggi, dove lo sfruttamento del suolo è totale ed ogni centimetro quadro costruito deve essere venduto a peso d'oro, per cui l'edificio godeva di spaziose aree comuni, tra le quali un ampio ingresso dove si affacciavano le porte dei due ascensori (per i piani pari e dispari) e la portineria e una grande sala comune riservata alle feste degli abitanti del palazzo.  Ma quello che io apprezzavo di più era il gigantesco pianerottolo, uno spazio spropositato, un rettangolo perfetto che conteneva sui lati corti le porte d'ingresso di due appartamenti, per un totale di quattro a piano, e sul lato lungo l'arrivo della scala e l'ascensore che, alternandosi, compariva a destra nei piani pari e nei dispari a sinistra.  Sull'altro lato lungo c'era una finestra alta che illuminava ampliamente tutto l'insieme. 

Per me era una specie di palestra, la palestra di Nadia Comaneci.  Era l'anno delle olimpiadi di Mosca ed io volevo solo guardare le gare di ginnastica. Facevo anch'io ginnastica a scuola,  e dunque mi allenavo (quando potevo, quando nessuno mi guardava), sul pianerottolo di casa mia.  Nel vuoto sentivo risuonare la musica nella mia testolina mentre facevo la mia presentazione. Al termine, dopo il saluto sorridente, sentivo gli applausi ed ero impaziente di vedere sullo schermo il mio punteggio. Poi, ad un tratto compariva e gli applausi si facevano caldissimi: 10.0!.  Oh!, che perfezione!, che leggerezza, che tecnica impeccabile!. Ero grande, ero la più grande ginnasta di tutti i tempi.

Quando non dovevo fare le gare nelle olimpiadi transitavo insieme a mia sorella da un piano all'altro andando a visitare i nostri compagni di gioco.  All'ottavo piano vivevano "las estori", tre sorelle dall'insolito cognome Story: Daniela, Maria Andreina e MariaTeresa, le prime due avevano esattamente l'età mia e di mia sorella;  al terzo c'era la casa de "la chichi" (sarebbe "cici" in italiano), una mia amichetta poco più grande con ben tre fratelli di cui il terzo, Luis, era veramente pestifero; al quarto c'erano Frank, dell'età di Luis, e suo infallibile compagno di avventure, e la sorellina piccola Elimelin, che era la nostra bambolina; al secondo vivevano due gemelli maschi quattro anni più grandi di me per i quali nutrivamo tutti grande timore e che chiamavamo semplicemente "los morochos", e affianco alla nostra porta d'ingresso vivevano due sorelle figlie di portoghesi che non facevano mai parte dei nostri giochi ma venivano regolarmente a tutte le feste di compleanno.  E poi c'era Nadia (come Nadia Comaneci, che fortuna chiamarsi così!), "Nayita", due anni più grande di me, al primo piano, ed io la amavo più di tutti.  Era bionda come non era nessuno e aveva tanti giochi meravigliosi, ma noi ci divertivamo soprattutto a costruire le case delle barbie con cartoni, libri aperti, scatole di scarpe, pezze e tappetti occupando la cucina, il corridoio o il salone di casa sua, che era tutto per lei.  Nel parcheggio aperto del palazzo dormiva ogni sera il camper di suo padre.

Quasi tutti i pomeriggi ci incontravamo al piano terra dell'edificio.  Sul fronte della strada c'era un piccolo giardino e sul fianco un'area coperta dove alcune macchine tra i pilastri restavano ferme a guardarci.  Io ricordo quando mi sedevo sullo scalino dell' ingresso e mi toglievo le scarpe per indossare i miei pattini bianchi a stivaletto con i lacci blu, ricordo le gare di "perinola" perché  vincevo sempre ed era l'unica cosa in cui battevo Luis, che al trentunessimo scatto perdeva il tiro, ricordo le pallonate che scavalcano il cancello e uscivamo tutti in commissione di recupero fermando vistosamente le macchine con il braccio teso e il palmo aperto della mano, ricordo che noi bambine saltavamo la corda mentre i maschietti si mettevano all'angolo a mostrarsi qualche strano arnese, qualche strano ritrovamento che non ci era concesso guardare. E mentre scrivo continuano ad arrivare i ricordi: litigate, brevi pianti, qualcuno che era caduto, qualcuno che intanto rideva a crepapelle, e sullo sfondo vedo la recinzione coperta dalle foglie verdi e i grossi fiori rossi che sparsi punteggiavano di colore i nostri pomeriggi. 


Allora il condominio era il nostro piccolo paese. 

Naturalmente poi le cose cambiarono.  Nayita fu la prima a trasloccare lasciando in me un grande vuoto, poi andarono via "las estori", poi "las portuguesas", e poi anche noi.

Il nostro nuovo edificio non fu mai uguale per noi.  Eravamo cresciute.  Il vecchio, però, mi lasciò i migliori ricordi, gli anni migliori, e un meraviglioso allenamento per la vita. 


























13 commenti:

  1. Perchè tutto quello che scrivi mi commuove? Non so...hai questo strano potere...mi rapiscono i tuoi racconti e mi trasportano in luoghi sconosciuti, con Los Morochos, Luis, Frank, Nadia...Fantastico!

    RispondiElimina
  2. Mi sono commossa leggendo, mi hai riportato alla mente il mio condominio, anch'esso anni '70, con un grande giardino, e tutte le famiglie con bambini che lo popolavano. Si faceva quasi vita comune e non mancava mai un cuginetto o un amichetto con cui passare il pomeriggio. Poi, come nel tuo racconto, negli anni c'è stato un ricambio degli inquilini, e niente è stato più come prima. E forse, anche perchè non eravamo più bambini e quella vita aveva perso ai nostri occhi l'incanto che la caratterizzava

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Cambiano gli scenari, gli attori, il tempo... ma la storia è sempre una. Che bello ritrovarsi in un racconto!. mi fai onore sai?. grazie!

      Elimina
  3. che meraviglia poter passeggiare nei tuoi ricordi e scoprire che come il paese piccolo piccolo anche un condominio può dare spazio alla libertà e alla colonizzazione degli spazi. Mi piace molto leggerti: grazie per la tua generosità... e poi una cosa: anche io amavo la comaneci (eh si, ginnasta anche io...non proprio come lei, purtroppo!) e ho amato perdutamente il film sulla sua vita...l'hai mai visto? con il senno di poi forse non è proprio un capolavoro, ma io ho versato litri di lacrime guardandolo e forse sulla scia dei tuoi ricordi potrebbe essere divertente vederlo...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Cara, avevo scritto una risposta ma mi era partita tre volte, poi l'ho cancellata, insomma, un disastro ho combinato!. Comunque dicevo che mi piacerebbe veramente vedere il film su Nadia Comaneci!. Anche l'altra volta, prima di scrivere il post mi sono rivista i suoi momenti magici e alcune interviste, per ricordare l'emozione che mi procuravano quelle immagini. vado a cercarlo!!!!!!!!!!!!!!!!

      Elimina
  4. che cosa bella raccontarci questi tuoi ricordi, e che bella l'atmosfera di gioco e familiarità che hai descritto. poter vivere lo spazio attorno a sè così liberamente, come un'estensione della propria casa..., credo che vivere così l'infanzia possa cambiarti in qualche modo la prospettiva sulle cose

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Volevo scrivere ancora ma poi mi sono trattenuta... fare ogni tanto un tuffo nella propria infanzia è salutare. Infatti si, l'edificio era un po' una estensione della propria casa, dentro i limiti dell'educazione avevamo una certa autonomia là dentro e non ricordo che nessuno mai si sia lamentato per disturbi in generale, tranne qualche finestra rotta da parte di Luis y Frank, che non mancavano mai... ma in generale c'era una tolleranza dei nostri giochi...

      Elimina
  5. adesso capisco anche di più la tua risposta al commento che ti ho lasciato nel post precedente, ad avere un'esperienza così...

    RispondiElimina
  6. Ciao, ho incontrato oggi il tuo blog, dopo qualche tempo passato a riflettere sui bambini nei loro spazi di crescita (sono anch'io architetto e mamma): in un giorno in cui immaginavo un bambino e il "suo" Modulor... Dato che questo mio piccolo lavoro di ricerca è costellato - necessariamente e inesorabilmente - dai ricordi della mia infanzia, ho provato il desiderio di condividere la memoria di una gioia, che in qualche modo mi ha portata, da mamma, a fare una scelta sull'onda di quella memoria... scoprendo poi che i tempi sono cambiati! Da piccola trascorrevo le estati a casa di mia nonna: paesino minuscolo in montagna, 50 abitanti perlopiù anziani con stuoli di nipoti in vacanza... Uscivamo la mattina in dieci, a volte anche venti bambini fra i 4 e i 12 anni e trovavamo il nostro mondo fra vicoli, fienili, boschi; si passava la giornata insieme, con piccoli rientri per pranzo, merenda e cena (nonne e mamme erano solo voci di richiamo, come le campanelle a scuola). Il ricordo di quella libertà, in un paesaggio accogliente e protetto quanto bastava, mi ha spinta a prender casa con la mia famiglia nella frazione di un piccolo comune, vicino ad un centro urbano di medie dimensioni: sognando che i miei bambini potessero almeno gironzolare da soli, andare a chiamare i compagni, giocare "fuori dal recinto". Purtroppo mi sono trovata invece in un paese dormitorio, con metà delle case abbandonate e pochi sguardi diffidenti verso noi "foresti"... bambini sparsi fra piscine, palestre, campi da calcio (tutti con l'agenda in mano già a sei anni, a quanto pare), mamme autiste, altalene e scivoli vuoti dentro giardini... vuoti!!! E i vicini che ci son capitati si lamentano se mio figlio calcia il pallone nel suo terreno... Noi bimbi di 30 anni fa crescevamo nelle comunità di vicinato, con relazioni basate sulla reciprocità, era quella la risorsa: chissà che le esperienze nascenti di cohousing in ambito urbano non riescano a colmare quel vuoto?

    RispondiElimina
  7. Simona che piacere che mi hai trovata!. Il tuo commento è fortissimo, fa capire che non si tratta di ambienti pericolosi o meno ma di un cambiamento sociale molto più profondo. In fondo è la stessa cosa che succede nei condomini, che è il punto al quale volevo arrivare... noi viviamo in un edificio di sette piani, due scale, tre appartamenti a piano. Ci sono diversi bambini della stessa età dei miei figli ma non sappiamo nemmeno come si chiamano. Se per caso incrociamo i genitori ci scambiamo a mala pena un "buon giorno". Il cortile non esiste più... è un parcheggio. A nessuno sembra interessare dare uno spazio dentro i condomini per far giocare i bambini. Per carità ci sono pure persone affabili e dolci con i bambini ma non c'è scambio. Nessuno necessita niente di nessuno quindi tutti restiamo a casa propria, senza bussare alla porta per chiedere un uovo o un po' di burro, come succedeva invece quando io ero piccola. E' triste vedere che anche nei paesi piccoli sia così oggi... hai ragione, la proposta del cohousing è proprio quella, credo che prima o poi torneremo a stabilire rapporti di reciprocità e solidarietà con i nostri vicini. E' un tema che mi inquieta veramente...continuerò a parlarne... Grazie del tuo prezioso contributo!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie a te, sono contenta quando posso contribuire! Trovo bellissima l'iniziativa di piantare i gelsomini nel - vostro - giardino pubblico... A volte davvero bisogna cominciare a cambiare "senza permesso"!

      Elimina