Oltre i propri confini


25.10.12


C'è ancora bel tempo a Roma, giornate di sole, uscite al parco con il maglioncino di cottone e  la possibilità,  ancora per poco, di tornare a casa sporchi di terra.  Nel quartiere dove abito in questa città sono poche le aree gioco per bambini.  Poche e, naturalmente, affollate.  Scarsi i giochi e scarsa la volontà di destinare spazi idonei ai bambini.  Sembra che per i politici mettere due altalene nell' angolo di una piazza deserta significhi donare spazi per l'infanzia.  Degni? (...lunga pausa di silenzio).  L'argomento è lungo e spinoso ma in realtà oggi non voglio affrontarlo.  Di questo ne parlerò in futuro, in un prossimo futuro, e ne parlerò sempre perchè la città è il luogo dove crescono i nostri bambini e non sembra rendersene conto dei bisogni di questi piccoli cittadini, facendoli crescere così nella diffidenza, nella paura e nella negazione di se stessa. 

Ma torniamo al parco (se vogliamo chiamarlo parco).  Molto vicino al nido che frequentano i miei due piccoli terremoti c'è una specie di piazza, o meglio piazzetta, costruita qualche anno fa.  Una fontana asciuta occupa il centro lasciando all'aria aperta la nudità dei suoi tubi sporgenti e pericolosi.  Qualche panchina perimetrale ospita regolarmente gli anziani e le loro badanti di occhi lontani.  Tre cavalucci allineati come soldati, senza guardarsi in faccia, denunciano la minima volontà di questo spazio a dare posto ai bambini.  Ha il pregio di avere alcuni alberi di ulivi che sono stati piantati.  In questo piccolissimo respiro cittadino, pullulante di bambini e ragazzi alle 17, i miei piccoli terremoti si divertono.  Forse semplicemente per un particolare che prima ho dimenticato di elencare:  il pavimento è di ghiaia.


Di solito i miei p.t. escono dal nido sul passeggino e dopo pocchi metri, all' avvicinarsi a questo spazio cominciano in coro ad urlare:  PARCO!; PARCO!.  Spesso accontento la loro vivace richiesta.  Appena scendono vanno di corsa verso i cavalucci, fanno qualche scarica spingendolo avanti e indietro e poi chiedono aiuto per scendere e dedicarsi a delle attività decisamente più interessanti.  Prendono un mucchio di ghiaia e lo posano sul sedile del cavaluccio, poi lo buttano a terra e ricominciano la loro operazione.  Inizia così la semina della ghiaia, un rituale che seguono seriamente, con grande concentrazione e del quale non gli piace essere distratti o interrotti.  La posano sui bordi arrotondati dei cordoli in pietra, sulle aste di legno, sui piedi delle panchine e sulle aiuole.  La spostano da un angolo all'altro fino a che non rimane nessun ritaglio non occupato o non iniziano a buttarla sugli altri bambini o su se stessi, al che trovano il mio perentorio divieto. 

Questo piccolo "parco" in questo modo appartiene a loro più che a nessun altro.  L'hanno fondato minuziosamente, hanno percorso i suoi angoli lasciando una traccia di se stessi, prolungando con i loro gesti la loro sfera dimensionale, il raggio d' azione del proprio corpo. Oltre i propri confini riescono ad occupare tutto lo spazio, o meglio, a proiettarsi su uno spazio che diventa tutt'uno con se stessi. 

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