C'è ancora bel tempo a Roma, giornate di sole, uscite al parco con il maglioncino di cottone e la possibilità, ancora per poco, di tornare a casa sporchi di terra. Nel quartiere dove abito in questa città sono poche le aree gioco per bambini. Poche e, naturalmente, affollate. Scarsi i giochi e scarsa la volontà di destinare spazi idonei ai bambini. Sembra che per i politici mettere due altalene nell' angolo di una piazza deserta significhi donare spazi per l'infanzia. Degni? (...lunga pausa di silenzio). L'argomento è lungo e spinoso ma in realtà oggi non voglio affrontarlo. Di questo ne parlerò in futuro, in un prossimo futuro, e ne parlerò sempre perchè la città è il luogo dove crescono i nostri bambini e non sembra rendersene conto dei bisogni di questi piccoli cittadini, facendoli crescere così nella diffidenza, nella paura e nella negazione di se stessa.
Ma torniamo al parco (se vogliamo chiamarlo parco). Molto vicino al nido che frequentano i miei due piccoli terremoti c'è una specie di piazza, o meglio piazzetta, costruita qualche anno fa. Una fontana asciuta occupa il centro lasciando all'aria aperta la nudità dei suoi tubi sporgenti e pericolosi. Qualche panchina perimetrale ospita regolarmente gli anziani e le loro badanti di occhi lontani. Tre cavalucci allineati come soldati, senza guardarsi in faccia, denunciano la minima volontà di questo spazio a dare posto ai bambini. Ha il pregio di avere alcuni alberi di ulivi che sono stati piantati. In questo piccolissimo respiro cittadino, pullulante di bambini e ragazzi alle 17, i miei piccoli terremoti si divertono. Forse semplicemente per un particolare che prima ho dimenticato di elencare: il pavimento è di ghiaia.
Di solito i miei p.t. escono dal nido sul passeggino e dopo pocchi metri, all' avvicinarsi a questo spazio cominciano in coro ad urlare: PARCO!; PARCO!. Spesso accontento la loro vivace richiesta. Appena scendono vanno di corsa verso i cavalucci, fanno qualche scarica spingendolo avanti e indietro e poi chiedono aiuto per scendere e dedicarsi a delle attività decisamente più interessanti. Prendono un mucchio di ghiaia e lo posano sul sedile del cavaluccio, poi lo buttano a terra e ricominciano la loro operazione. Inizia così la semina della ghiaia, un rituale che seguono seriamente, con grande concentrazione e del quale non gli piace essere distratti o interrotti. La posano sui bordi arrotondati dei cordoli in pietra, sulle aste di legno, sui piedi delle panchine e sulle aiuole. La spostano da un angolo all'altro fino a che non rimane nessun ritaglio non occupato o non iniziano a buttarla sugli altri bambini o su se stessi, al che trovano il mio perentorio divieto.
Questo piccolo "parco" in questo modo appartiene a loro più che a nessun altro. L'hanno fondato minuziosamente, hanno percorso i suoi angoli lasciando una traccia di se stessi, prolungando con i loro gesti la loro sfera dimensionale, il raggio d' azione del proprio corpo. Oltre i propri confini riescono ad occupare tutto lo spazio, o meglio, a proiettarsi su uno spazio che diventa tutt'uno con se stessi.
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