Sono passati quasi due mesi da quando è arrivata Maha. E' stato un venerdì la prima volta che ho sentito pornunciare il suo nome dalla bocca di mia figlia. Sarebbe arrivata tre giorni dopo a scuola, di lunedì, come ogni inzio, e i bambini della classe erano stati avvertiti dalla maestra e invitati a portarle qualche pensiero per accoglierla: un disegno, un palloncino, qualsiasi piccolo gesto di benvenuto. Questo era stato il compito per il fine settimana.
Marta era fortemente entusiasta del suo arrivo. Nel ultimo anno tre bambini erano partiti a metà anno scolastico con destinazioni diverse: Li Wang era tornato in Cina, Amina era partita per Londra e Apon era tornato in Bangladesh, lasciando un vuoto importante nella loro classe. Una nuova bambina avrebbe forse riempito un po' la loro assenza. Nella nostra scuola, con il maggior tasso di studenti provenienti di paesi non europei di Roma, la continua migrazione è una realtà quotidiana. Nuovi Arrivi e partenze fanno parte dell'esperienza scolastica, di una realtà in continuo cambiamento, con forti tensioni al suo interno.
Quando abbiamo scelto questa scuola ci preoccupava, come un po' a tutti, quanto questi continui inserimenti potessero incidere sul normale svolgimento delle lezioni, il compimento del programma scolastico, quanto i bambini non italoparlanti potessero rallentare i ritmi di apprendimento degli altri. Il tema è delicato ma una volta entrati nella sua realtà ci siamo resi conto che forse questo era un aspetto secondario, che non era la lingua la maggiore difficoltà che maestre e alunni dovevano affrontare. Sostenere le tensioni emotive di questi bambini strappati dal loro contesto e dai loro cari familiari è il loro vero compito, la vera sfida di una scuola multiculturale.
Marta aveva meditato su che regalo poteva farle, quale benvenuto poteva essere il più caloroso, come poteva con un semplice gesto (rigorosamente senza parole) offrire la sua amicizia. Sabato mattina aveva già deciso: le avrebbe regalato quello che sarebbe piaciuto a lei stessa ricevere: una bambola. A casa abbiamo sufficienti pezze in giro quindi non è stato difficile procurarci i materiali necessari per la realizzazione. Abbiamo immaginato come sarebbe Maha, il colore della sua pelle, i suoi capelli, la forma del suo naso e così abbiamo cucito insieme una bambola che assomigliasse una bambina del Bangladesh. Forse Maha era più o meno così.
Mentre la cucivo ricordavo la mia esperienza quando da bambina ho cambiato scuola. Avevo nove anni, andavo in quarta elementare (ero un po' precoce per la mia età). Mia madre aveva scelto per noi una scuola di suore, solo di femmine, dall'altra parte della città. Quando sono andata a presentare l'esame di ammissione mi era sembrato un posto lugubre, estrememente freddo nella sua rigorosa austerità. Non credevo di riuscire a rinunciare al enorme parco giochi della vecchia scuola, ai suoi alberi frondosi che crescevano in mezzo alla ghiaia estesa per terra, alla sua palestra attrezzatissima dove sognavo di diventare Nadia Comanecci. Non immaginavo allora quanto avrei potuto colmare il loro vuoto con una cosa molto più potente di qualsiasi spazio: nuove amicizie.
Il mio primo giorno di scuola mi sentivo profondamente in imbarazzo. Ho un ricordo così nitido di questa giornata che potrei descrivere il vestito bianco che avevo adosso, i cappelli legati di mia madre che vedevo lentamente sparire tra la folla, gli occhiali luccicanti della suora in piedi affianco al portone, le urla delle bambine al rientro delle vacanze, con i loro grembiulini a quadretti, che venivano a dimostrare con schiacciante evidenza la loro appartenenza a quel posto così lontano da me. Io invece indossavo un vestito da festa, mia madre non era riuscita a procurarsi la nuova divisa che da quel anno era in uso, e quindi ero visibilmente nuova e solitaria a tutti gli effetti. Riccordo attraversare la massa di ragazze che si abbracciavano e ridevano, girare a destra e salire con incertezza le scale che mi portavano alla mia nuova aula in compagnia di una suora bianca e silenziosa. In piedi davanti alla porta restai ferma per alcuni minuti. L'aula era già quasi piena. Davanti a me, verso gli ultimi posti del corridoio a sinistra una bambina mi faceva segno di avvicinarmi. Mi mostrò un posto vuoto affianco a lei e mi invitò a sedermi. Era Maria Virginia. Allora non sapevo che sarebbe diventata la mia più cara amica per il resto della mia vita.
Domenica mattina avevamo già finito il nostro lavoro. Mia sorella, di passaggio quel fine settimana, aveva anche dato una mano a cucire i bordi del vestito di lana arancione. Per lei era forse troppo semplice, avrebbe voluto aggiungere altri bottoni, qualche ricamo al vestito. Per noi (Marta ed io) era giusta così. Mancava solo fare un bel pacco. Sul fronte della scatola senza fiocco Marta aveva scritto un bigliettino, forse qualcuno glielo poteva tradurre, anche se il suo significato si capiva senza parole. Aveva scritto: "Sono felice per te". Credo che nella sua formula semplice intendesse dire: "Sono felice per il tuo arrivo, perchè tu sei qui, ora, con noi".
A poco più di un mese dal suo arrivo Maha non parla ancora italiano, ma oggi nella lezione aperta del corso di teatro e musica della scuola (portato avanti dal progetto MUS-E) ho visto una bambina muoversi e gesticolare come gli altri. Era tenuta, come tutti, a sapere a memoria il suo copione e lo ha recitato quasi senza aiuto, anche se la sua incertezza si percepiva dal suo tono di voce troppo basso, dallo sguardo fisso verso la maestra, dalle compagne connazionali sempre vicine a lei.
Una scuola non ha solo il compito di trasmettere conoscenza, ma di formare persone con la volontà di offrire se stessi per costruire una società migliore. A poco serve accumulare sapere se non siamo in grado di sensibilizzarci verso l'altro.
A quasi due mesi del suo arrivo Maha è un'altra bambina della classe.
Una scuola non ha solo il compito di trasmettere conoscenza, ma di formare persone con la volontà di offrire se stessi per costruire una società migliore. A poco serve accumulare sapere se non siamo in grado di sensibilizzarci verso l'altro.
A quasi due mesi del suo arrivo Maha è un'altra bambina della classe.
cara, mi commuove leggerti, ormai lo sai! stasera vado a letto pensando a quello che ci hai raccontato...
RispondiEliminaCara Federica!, che piacere trovarti qui!, mi ha fatto molto felice vedere che faremmo entrambi parte della giuria del micro per micro. grazie del tuo commento e le tue belle parole!. Ti abbraccio forte!.- Adriana.
Eliminaè bello che alcuni bambini possano fare esperienze di questo tipo, vivere sulla loro pelle emozioni così grandi come quelle che si portano dietro bambini che vengono da lontano. questo secondo me è il primo passo verso una scuola non solo nozionistica ma anche, come si dice, palestra di vita. un abbraccio forte
RispondiEliminaPer noi è una grande richezza portare i nostri figli in una scuola come questa. Non che non ci siano delle difficoltà concrete legate a i continui trasferimenti, ma i bambini crescono con la consapevolezza che il mondo è vasto e pieno di diversità, e questo non viene insegnato ma vissuto quotidianamente. I loro confini si estendono molto più lontano del piccolo territorio che ci circonda, i suoni di tante lingue li sono familiari. Se la scuola riesce a trasmettere questa apertura di visioni e di pensieri e il rispetto per queste avrà già fatto un bel compito nella formazione di futuri cittadini del mondo. Un abbraccio forte anche a te!
EliminaChe bel post! Qui a Londra sono spesso in contatto con classi multietniche (anzi, non mi è mai capitato il contrario), e questo è molto bello perché permette ai bambini di affacciarsi ad altre culture con naturalezza: sono tutti diversi, ma nessuno è "straniero".
RispondiEliminasi, a Londra questa è una delle cose più affascinante per me, la sua multiculturalità. In Italia non c'è familiarità con questa realtà, è abbastanza recente, quindi viene relegata, oltre al fatto che sono gli stessi stranieri che tendono a chiudersi nel loro cerchio connazionale. Saranno i loro figli che resteranno in Italia, i compagni di Marta, a integrarsi veramente. Quel giorno al teatro, alla fine dello spettacolo, ogni bambino ha detto "buona notte" nella propria madre lingua. Cristina, una bambina cinese, lo ha detto in italiano!. un abbraccio.
EliminaBellissimo post, me lo segno tra quelli da segnalare sulla pagina FB. Ti capisco bene, io di scuole ne ho cambiate sette, e non è per niente facile - ma io, tranne una volta, la lingua la parlavo, ed ero sempre nel mio paese. Per questi bambini potrebbe essere un trauma o una grande opportunità, e una bambola di pezza può fare un'enorme differenza, può far sentire a casa. Complimenti per la scelta coraggiosa della scuola, un'esperienza del genere è un bagaglio incomparabile. Ci vorrebbe ovunque un po' di multietnicità, non dovrebbe essere un'eccezione...
RispondiEliminaGrazie cara!. Io pure credo che se sarebbe stato molto bello se mi avessero accolta in una nuova scuola con una bambola di pezza. Ma anche io parlavo la lingua, era un po' più facile. E' bello vedere come communicano maestre e bambini senza parole, attraverso le cose, i disegni, ripetendo le parole in italiano lentamente. La cosa più bella è vedere poi come questi bimbi imparano la lingua in tempi record, e come la classe si sente orgogliosa dei loro progressi. Un forte abbraccio anche a te!
EliminaMolto commovente. Non tutti pensano che le diversità siano ricchezze da cui imparare. Un abbraccio
RispondiEliminaE poi Maha ha un post che parla di lei, un racconto indelebile sul suo arrivo. Magari da grande lo rileggerà con piacere, così come l'ho letto io.
RispondiElimina;)
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